Le leggi razziali: Sami racconta la sua deportazione
La memoriaIn seguito alla promulgazione delle leggi razziali e allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Adolf Hitler ordinò di procedere con le deportazioni delle comunità ebraiche nei campi di concentramento, al fine di attuare la “soluzione finale”.
Dal 1939, anno in cui iniziarono le deportazioni, sino al 1945 furono deportati in questi campi della morte milioni di Ebrei, tra i quali si registra il nome di Samuel Modiano, che giunse a Birkenau nel 1944 con tutta la sua famiglia ad eccezione della madre, morta qualche anno prima a Rodi.
Samuel, più noto come Sami, nasce nel 1930 a Rodi dove crebbe sino alla tenera età di 14 anni. Così come ci ha riferito Sami, dopo la partenza dalla sua terra natia, per lui è cominciato un vero e proprio inferno.
Dopo essere stato censito insieme con tutta la comunità ebraica di Rodi, Sami fu condotto nella pancia di una grande nave che avrebbe dovuto portare gli Ebrei nei territori balcanici in condizioni del tutto disumane: l’aria pesante, l’acqua e il cibo razionati, il caldo torrido d’agosto che logorava la pelle di uomini, donne e bambini ammassati come fossero bestie condotte al macello. Sami, ancora avvolto in un alone di innocenza, rimase sorpreso dal forte senso di solidarietà del suo popolo e di suo padre che, nonostante si trovasse sull’orlo del baratro, continuava ad aiutare coloro che si trovavano in evidenti difficoltà rischiando la vita personalmente.
Una volta giunti sui Balcani, gli Ebrei furono fatti salire su un treno che li avrebbe condotti dinanzi al cartello di Auschwitz-Birkenau, quel famoso “ArbeitMachtFrei”, che avrebbe segnato la fine di moltissimi Ebrei. Giunti nel luogo della loro morte in condizioni del tutto precarie, gli Ebrei furono sottoposti a delle rapide visite mediche che ne avrebbero decretato il futuro.
Il medico, dopo averli osservati, ne decideva il destino in base allo stato di salute. Una volta suddivisi per età e sesso, i Kapò li separavano in due gruppi: a sinistra tutti coloro che erano sani e che quindi potevano essere adibiti al lavoro; a destra, invece, venivano raggruppati tutti coloro che non erano idonei a lavorare nel campo e che venivano quindi condotti nelle camere a gas.
Sami, per sua fortuna, stava a sinistra. Durante la sua permanenza nel campo di Auschwitz, oltre alle sofferenze che provò sulla propria pelle, si trovò ad affrontare un dolore forse ancora più atroce: la morte di suo padre e dell’adorata sorella maggiore, Lucia.
Molto toccante è la sua testimonianza circa la liberazione dal campo: la guerra volgeva ormai al termine, e i Tedeschi, venuti a sapere dell’avanzata ad ovest dell’Armata Rossa di Stalin, retrocedevano verso la capitale. Gli Ebrei, in seguito alla fuga dal campo dei Tedeschi, furono abbandonati a se stessi, erano in balia di una sorte incerta, di un ago della bilancia che pendeva talvolta verso la vita, talvolta verso la morte.
Sami, inaspettatamente, per quanto in condizioni disumane, riuscì comunque a salvarsi grazie a quello che gli studiosi americani definiscono “senso di urgenza”, e che noi chiameremmo istinto di sopravvivenza. Dopo aver trascorso un’intera notte in mezzo alla neve, Sami riuscì a trascinarsi sino all’entrata di una baracca in cui innumerevoli erano i corpi senza vita degli Ebrei, sotto i quali si rifugiò fingendosi morto.
Il giorno seguente Sami fu ritrovato in stato di ipotermia, insieme ad altri pochi superstiti, dai soldati Russi che avevano varcato i cancelli di Auschwitz, ponendo fine a quell’inferno.
Ormai quasi nessuno degli Ebrei che riuscì ad evitare la morte nel campo del terrore è più in vita, fatta eccezione per Sami, che ci ha potuto narrare di questa barbarie. Nonostante siano passati ormai oltre settanta anni da questo terribile genocidio, Sami, e coloro che come lui sono sfuggiti alla morte, ricordano ancora nitidamente le brutalità che furono costretti a subire.
Sebbene Sami possa essere considerato un miracolato, ciò che colpisce di più è il suo modo di vedere la propria vita: egli infatti sostiene ancora oggi che avrebbe preferito morire lì ad Auschwitz insieme alla propria famiglia, anziché dover sopportare per tutta la vita il macigno della memoria. L’unico grande scopo della sua esistenza al momento è fare in modo che le nuove generazione comprendano quale sia la retta via da percorrere affinché una mostruosità del genere non si verifichi mai più.
A cura di
Victor Bruno
Maria Pia Nardone
Federica Marrone
Carmen Speranza
Mario Fabbrocini